domenica 27 gennaio 2013

IL CINEMA DELLA SHOAH: PER NON DIMENTICARE


Il «cinema della Shoah» è, già da molti anni, oggetto specifico di attenzione critica da parte di studiosi e osservatori in tutto il mondo.
Ma prima di tentare una riflessione sull’attuale «stato dei lavori», conviene fare un rapidissimo excursus storico, volto a rintracciare, quantomeno, alcune tipologie nel tempo. E si chiede anticipatamente scusa per tutte le omissioni che il lettore avvertirà, poiché nulla come il cinema risveglia la memoria e il vissuto di ciascuno.
Sin dall’inizio, documento e fiction si intrecciano strettamente.
Certo il documentario presenta modalità che appaiono assai ben scandite e distinguibili nel corso degli anni.
Dopo le riprese effettuate dagli stessi nazisti, e destinate a essere riesumate variamente più tardi, è quanto filmato in presa diretta dagli Alleati, a Est e a Ovest, alla liberazione dei campi, a occupare la scena, anche se nella maggior parte dei casi queste pellicole dovranno aspettare almeno una trentina d’anni per venire proposte al pubblico nella loro – peraltro sempre relativa – integralità. Si ricordi in particolare Memory of the Camps, girato dopo l’arrivo di inglesi e americani nel campo di Bergen-Belsen, il cui realizzatore, Sidney Bernstein, ebbe la consulenza di Alfred Hitchcock, specialmente per quel che riguarda la scelta decisiva di fare riprese in campi lunghissimi, a testimoniare la veridicità dei luoghi e dei tempi. È il film, per intenderci, nel quale i buoni cittadini tedeschi dei dintorni vengono portati a vedere quelch’era accaduto nel campo – e questo, com’è stato notato, non soltanto a scopo punitivo-educativo, ma anche e soprattutto per rafforzare quell’aura di autenticità che si voleva perseguire.
Specialmente a partire dagli anni cinquanta sono i film di montaggio a prevalere, film cioè che per definizione assemblano variamente materiale di provenienza eterogenea, con perlopiù l’intento retorico (nel senso buono, cioè neutro, del termine) di mostrare la natura criminale in generale del regime nazista, a partire dal sistema concentrazionario.
L’apice è costituito quasi subito dal pur breve – e proprio la brevità è uno dei suoi elementi di forza – Notte e nebbia (Nuit et brouillard, di Alain Resnais, 1956), con il forte commento di Jean Cayrol e con incredibili conseguenze già «mediatiche» negli anni a seguire – si pensi alla scena di Anni di piombo (Die bleierne Zeit, di Margarethe von Trotta, 1981) nella quale giovani tedeschi, alcuni dei quali destinati a intraprendere la strada del terrorismo, vedono il film, ne restano scioccati e ne discutono, soprattutto per quel che riguarda «le colpe dei padri». Ma si devono notare, a proposito di Notte e nebbia, almeno due cose. C’è il fatto, innanzitutto, che non si tratta già più di puro montaggio, con scene a colori, sui luoghi coinvolti, che si alternano a quelle di repertorio in bianco e nero. Ed è pure molto significativo che nel cortometraggio di Resnais non si parli praticamente mai di ebrei, quasi a indicare con forza il valore universalmente umano della vicenda.
Con gli anni ottanta viene a maturazione, anche nel cinema, l’era del testimone, ed è appunto il film di testimonianza e memoria a emergere con forza, e anzi a divenire un genere quasi codificato. Ma all’origine sta subito un capolavoro assoluto e fuori dalle righe come Shoah di Claude Lanzmann (1985). E su questo si tornerà tra poco.
Si è detto che l’invenzione narrativa si intreccia sin dal principio, per il cinema della Shoah, con la ripresa documentaria dal vero. E questo è vero alla lettera, qualora si pensi alla fiction drammaticamente docu (ma comunque fiction) di Wanda Jakubowska, vera ex deportata polacca che realizza ad Auschwitz il suo film, L’ultima tappa (Ostatni etap, 1948), collaborando strettamente con molti altri sopravvissuti – e c’è un evidente parallelo con la prima ondata, in quegli stessi anni dell’immediato dopoguerra, di diari e testimonianze della persecuzione e della prigionia; l’ondata, cioè, di Primo Levi e di tanti altri che, allora, nessuno volle ascoltare.
Abbiamo poi una lunga fase, tra anni cinquanta, sessanta e primi settanta, in cui il tema della Shoah è affrontato, nel cinema di finzione, americano e non solo, con maggiore o minore coraggio, ma comunque sempre «di lato», come ingrediente narrativo tra altri, e spesso come mero elemento di spettacolarizzazione.
In questa lunga fase vanno però almeno ricordati, anche per il modo sempre più esplicito col quale vengono affrontate le tematiche, film come Kapò di Gillo Pontecorvo (1960) e soprattutto alcune straordinarie pellicole realizzate nell’Europa orientale, come La passeggera di Andrzej Munk (Pasazerka, Polonia, 1963), Il negozio al corso di Jan Kadár e Elmar Klos (Obchod na korze, Cecoslovacchia, 1965), e altri ancora; dov’è senz’altro notevole il fatto che nel cinema, all’Est, il discorso sulla catastrofe occorsa al popolo ebraico durante la seconda guerra mondiale è molto più esplicito che nelle parallele celebrazioni ufficiali degli stessi anni negli stessi paesi, quando gli ebrei in quanto tali spariscono e divengono soltanto vittime «come tutte le altre».
E arriviamo così alla fine degli anni settanta, quando comincia un’epoca, ch’è ancora la nostra, decisamente nuova e di distacco dal passato, con ricorrenti film-evento, dal televisivo Holocaust, al decisivo Schindler’s List, a La vita è bella, oltre a moltissimi altri che solo per comodità chiameremo minori.
Si è già detto che una copiosa letteratura si è sviluppata contemporaneamente a quest’ultima fase, ed è cosa che è già significativa di per sé, come se soltanto a partire da una produzione cinematografica matura sull’argomento si potesse passare a una vera ricognizione critica, anche retrospettiva e anzi risalente alle origini.
Questa letteratura critica è spesso, innanzitutto, repertorio e catalogazione, in quello ch’è forse il più puro stile, peraltro benemerito, degli studiosi soprattutto americani, con una spiccata tendenza, cresciuta negli anni e a tratti alquanto fastidiosa, a cadere in una sorta di bizantinismo classificatorio tale da mettere in evidenza ogni possibile intreccio tra argomenti, generi e sottogeneri. Ma c’è anche, in questa letteratura, molta e mai sopita vis polemica, ad esempio in termini di critica della «riduzione a spettacolo» e di attenzione al fenomeno della americanizzazione della Shoah; fenomeno quest’ultimo che, beninteso, va ben oltre l’ambito cinematografico, ma che indubbiamente nel cinema trova un suo terreno particolare d’elezione; ed è pure evidente come l’americanizzazione della Shoah non debba necessariamente comportare soltanto elementi negativi.
Soprattutto, e non può essere altrimenti, gli studiosi hanno in qualche modo portato al dibattito e quasi codificato i problemi classici relativi a un «cinema della Shoah», e cioè quelle grandi questioni che si impongono con necessità all’osservatore.
E quali sono questi problemi classici?
Per primo, c’è senz’altro il problema della «rappresentazione vera», con tutto il suo seguito di realismo, realtà storica, accurata ricostruzione, attenzione ai particolari ecc.
Ma subito dopo vengono questioni come quella dell’orizzonte di pre-comprensione che sta dietro a un film come a qualsiasi altro prodotto creativo: di cosa si vuol parlare quando si filma la Shoah; quali sono i preconcetti, le finalità e i più generali orientamenti ideologici alla base dell’ispirazione e della realizzazione; ma anche quel che si sceglie di rappresentare e come.
Infine, last but not least, è certamente la rilevanza data alla dimensione ebraica dell’evento che costituisce un topos critico di urgenza sempre maggiore col passare del tempo.
A modo di esempio, proviamo a leggere attraverso quest’ultimo paradigma, quello appunto dell’ebraicità dell’Evento, alcuni «filmevento» degli ultimi decenni.
Olocausto (Holocaust, Tv, di Marvin Chomsky, 1978) è, com’è stato notato, un programmato e pantografato riassunto, attraverso la storia di una famiglia ebraica tedesca, di tutto quel che ha subito il popolo ebraico nel periodo 1933-45, dalle Leggi di Norimberga all’imbarco di tanti sopravvissuti per la Palestina. In altre parole, si tratta (da parte di un regista che poco prima, peraltro, aveva realizzato Radici, alla ricerca dunque di altre tormentate genealogie) di offrire, attraverso il mezzo popolare per eccellenza della televisione, davvero una prima esplicita ricostruzione (narrativamente sapiente anche se storicamente debole) dell’intera vicissitudine nel suo impatto complessivo sul popolo che ne è stato la vittima designata. E si capisce come Olocausto abbia costituito un vero e proprio trauma soprattutto per gli spettatori tedeschi.
Schindler’s List (di Steven Spielberg, 1993) è invece, in modo dichiarato e nonostante il protagonista non ebreo del titolo, un tentativo di leggere la Shoah come un evento che si inserisce fino in fondo in una prospettiva storica ch’è pure fortemente ebraica, in senso molto identitario, come bene indicano l’inizio e la fine del film, e dunque la collocazione della vicenda tra la tradizione, anche e soprattutto «religiosa», e il moderno inveramento del Sionismo e dello Stato d’Israele.
La vita è bella (di Roberto Benigni, 1997) rappresenta bene, da questo punto di vista, un’intenzione molto lontana e quasi opposta, rispetto a quella spielberghiana, con una marcata ri-universalizzazione del dramma, sia pur partendo esplicitamente dalla «questione ebraica», e anzi dalla questione razziale nell’Italia fascista. I protagonisti (tra l’altro, una famiglia «mista» che irride, già con il suo stesso esserci, questioni e leggi razziali di ogni ordine e grado) sono persone qualunque esposte alla violenza insensata della storia, prima ancora che portatori consapevoli di una qualche comunanza di destino storico e meta-storico.
Molto diverso pare, da questo punto di vista, un film spesso accostato (per una serie di ragioni delle quali la quasi contemporaneità risulta tutto sommato la meno importante) a La vita è bella, e cioè Train de vie (di Radu Mihaileanu, 1998), dove tutto, dal titolo all’«umorismo sognatore e difensivo» alla dimensione collettiva della vicenda, rimanda a una forte e «segnata» connotazione ebraica – fino all’estremo dell’incontro/confronto con un’altra cultura «forte», e senza nazione, dal punto di vista identitario, come quella degli zingari.
Il pianista di Polanski (2002) sarà invece, alla fine di questo breve excursus, il ritorno alle ragioni dell’individuo, un film soloista [ok?], come è stato definito, dove appunto la sopravvivenza anche casuale del singolo viene in primo piano, sia pure in un contesto storicamente accuratissimo, e quindi fatalmente molto «ebraico». E siamo pressoché agli antipodi di quell’Olocausto da cui eravamo partiti…
Certo, anche da questo punto di vista ci manca fortissimamente quel «film sulla Shoah» che Kubrick aveva in progetto di realizzare nei suoi ultimi anni di vita.
Tuttavia, la vera, grande e anzi somma questione alla quale si deve ritornare è pur sempre quella della rappresentazione, in tutte le sue declinazioni possibili. Ed è la grande questione anche perché è, spesso e volentieri, assolutamente fraintesa e mal posta.
In effetti, il cinema è, in senso lato, una forma di narratività particolare; il cinema è anche un peculiare ritorno alla realtà fisica, come voleva Siegfried Kracauer; il cinema è forse davvero, infine, per dirla con Gilles Deleuze, omologo al pensiero e alla filosofia «creativa»; ma, insomma, il cinema non è mai mera rappresentazione.
Semmai, è appunto il cattivo cinema a essere, o a tentare di essere, pura rappresentazione, mentre quello «importante» ed epocale non lo è mai, né può esserlo.
Beninteso, non sono certo questi il luogo e il tempo per approfondire il tema (alquanto paradossale, come si converrà) da un punto di vista teorico generale – per non parlare, poi, di eventuali ampliamenti alle arti in genere, comprese quelle «rappresentative», appunto, e soprattutto la letteratura.
Piuttosto, per tornare a quel che ci interessa qui, è proprio la storia del «cinema della Shoah», brevemente richiamata sopra, che potrebbe riceverne un po’ di luce. Insomma, qui specialmente, quando si parla, tra l’altro, dell’irrappresentabile per eccellenza, non si tratta principalmente di un presunto sviluppo del linguaggio cinematografico, o anche di un adeguamento progressivo della forma al suo contenuto. Anzi, da questo punto di vista si potrebbe ricorrere a una formula quasi provocatoria, e cioè che: il cinema della Shoah è passato, nel corso del tempo, da un non sapere rappresentare a un sapere e volere non rappresentare.
In realtà, la non-rappresentazione, a volerla chiamare così, per i film soprattutto più recenti, va ricollegata strettamente a uno sfondo complesso, senza aver cognizione del quale è impossibile, letteralmente, capirci qualcosa – a meno che, appunto, ci si voglia accontentare di qualche delirio cinefilo sullo «specifico filmico» o simili.
In altre parole: dietro i grandi film che hanno fatto discutere, negli ultimi anni, c’è proprio il contesto della «memoria della memoria», o anche, semplicemente, quel pressante problema dell’interpretazione della Shoah che, da almeno 25-30 anni, incalza tutti, o comunque tanti, ebrei e non ebrei, quasi ossessivamente, spingendo a rivedere via via tutte le categorie riguardanti la storia, la memoria, il pensiero, l’etica, anche la rappresentazione, in senso lato, e quant’altro, intorno all’Evento.
Ancora una volta, non ci si può dilungare qui sulla questione presa nel suo insieme, alla quale è stato peraltro dedicato l’intero convegno nell’ambito del quale si è collocato il presente contributo. Né si può dir molto, anche se si vorrebbe, sulle relative questioni di periodizzazione, tra «era del testimone» e suo ineludibile destino a essere «oltrepassata» (senza troppo danno, si spera, per la memoria, e quindi per noi), tra guerre d’Israele e costruzione dell’identità europea, tra lo svariante intensificarsi del vissuto ebraico della Shoah e l’immonda risposta costituita dal proliferare, negli ultimi decenni, di negazionismi e revisionismi assortiti – anche se, molto spesso, in tutto questo, non è facilissimo rintracciare la vera direzione dei rapporti di causa-effetto, azione e reazione ecc.
Ma per restare al cinema, anche i film sono un riflesso e insieme una manifestazione degli atteggiamenti, nel tempo, nei confronti della Shoah, e insomma del dibattito pubblico (e pubblico anche quando coinvolge, all’apparenza, pochi specialisti) su questi temi. Che i film siano poi, a volte, occasione ancor più notevole di reazione, emotiva e
riflessiva, nonché di dibattito e di estensione dello stesso, si spiega facilmente con il fatto che si tratta appunto del linguaggio più potenzialmente popolare, non certo per una sua presunta essenza, quanto per le sue infinite possibilità nei termini della comunicazione a più livelli – ed è chiaro allora che, quando diciamo cinema, intendiamo qui, sbrigativamente, anche moltissima televisione «di qualità», mentre escludiamo totalmente, e pour cause, altri, più recenti linguaggi multimediali.
Insomma, i film nascono da quel che si agita loro intorno, e a loro volta tornano a esercitare, potentemente, quasi sempre, un profondissimo feedback su quello sfondo. Per questo possiamo parlare di filmevento, ben oltre quanto potesse accadere, ancora qualche decennio fa, a partire da un film che toccasse l’argomento dello sterminio nazista degli ebrei durante la seconda guerra mondiale.
Così, per esempio, Shoah di Lanzmann non è soltanto l’opera, già solo per questo straordinaria, di un uomo non proveniente dal cinema che pretende di riproporre in modo nuovo, attraverso un mezzo cinematografico utilizzato con inaspettata e quasi istintiva sapienza, la memoria dell’Evento. Shoah ricrea la Shoah con la testimonianza, e anzi crea quest’ultima in una versione nuova e dirompente, senza alcun intento meramente documentario, ma piuttosto con una forte operazione che è, insieme, ri-nominazione delle vittime, narrazione straziante senza consolazione finale, e vero e proprio «pensiero della Memoria»; il tutto a monte e a valle di quell’era del testimone, appunto, che Annette Wieviorka ha evocato a definire tanti nuovi orientamenti nei confronti della «cosa», e prima di tutto nel mondo ebraico, che hanno caratterizzato gli ultimi decenni.
Insomma, Shoah non è soltanto il poema, la vetta suprema, sul piano espressivo, della testimonianza filmata riguardante la Shoah, ma è pure una sorta di inaggirabile unicum per chiunque, dopo, abbia cercato di capire qualcosa sull’argomento e sulle sue possibili interpretazioni.
Da un punto di vista più strettamente «filmico», Shoah è insieme il prototipo e il modello insuperabile per ogni film di testimonianza sulla Shoah che sia venuto dopo. Anzi, Shoah è il meta-testo che ha indicato agli altri di che cosa si dovesse parlare se si voleva parlare di questo.
E questo vale sia, in generale, quando si tratti di raccogliere in modo sistematico, finché si è in tempo, le testimonianze filmate dei sopravvissuti, alla maniera della Foundation voluta da Spielberg; sia quando si tratti di raccogliere qualche testimonianza con intento ben diversamente «consolatorio» (ma non per questo di per sé disprezzabile) rispetto a Lanzmann, come è il caso di The Last Days (di James Moll, 1998); sia infine quando si tenti una ricostruzione «forte» della memoria testimoniata, con soluzioni espressive se non del tutto vicine a quelle di Shoah, certo consapevoli della sua lezione, come nell’italiano Memoria (di Ruggero Gabbai, 1997).
Il fatto è che Shoah ha veramente reinventato dalle fondamenta la testimonianza relativa alla Shoah, compresa, oltre alle vittime, quella dei carnefici e degli spettatori, secondo l’ormai classica tripartizione proposta da Raul Hilberg (che, non a caso, è anch’egli protagonista-ispiratore del film, quando ancora la sua fama internazionale non era allo zenit).
E non si tratta affatto di «rappresentazione». Piuttosto, davvero Lanzmann vuole riportare alla luce il trauma originario, imponendo spesso alle vittime non soltanto di ricordare, ma anche di riprodurre i gesti di allora – non senza, spesso e volentieri, una necessaria crudeltà.
In un libro recentissimo interamente dedicato a Shoah, Aline Alterman ne ha proposto una lettura tanto radicalmente cinematografica che filosofica, in cui ci si aggira tra reminiscenze del cinema noir classico (la fine, cioè l’esito negativo, è noto sin dal principio), volti di levinassiana memoria e traumatismi da «storia dei vinti» di Walter Benjamin – laddove nella «dialettica alternante», Visages-Dires- Silences, ancora proposta dalla Alterman, sembra compendiarsi un ventennio di discussioni sul film.
Si può essere più o meno d’accordo con letture come questa, ma non si può non riconoscerne la necessaria radicalità e il rinvio continuo a un contesto amplissimo di vissuti, riflessioni, collocazioni nella storia, ben oltre un film, per quanto importante – senza contare in quale misura Shoah abbia poi costituito fonte di ispirazione e insieme inesauribile arsenale di spunti contenutistici e formali per il cinema successivo
anche di fiction.
Ma anche Schindler’s List merita, in questo contesto, un ripensamento critico, che, tra l’altro, liberi un po’ il film dalla fatale «imbalsamazione epocale», nel bene e nel male, di cui è stato fatto oggetto nel corso del tempo. In effetti, non si tratta soltanto di rilevarne il già citato, forte, esplicito e per noi anche coraggioso carattere identitario ebraico. Ancor più interessante è quel che, dietro l’apparente spettacolarizzazione a tutto tondo – a prima vista un trionfo, appunto, della rappresentazione «ben fatta» –, sembra essere la ratio più profonda, e perciò nascosta, dell’opera, e cioè proprio una riflessione radicale sui limiti, insieme, della rappresentazione e della responsabilità morale di
noi contemporanei nei confronti della Shoah. In tale prospettiva, Schindler’s List è davvero un film potente costruito a partire da una serie di dissimulate, forse, ma non per questo meno esibite impotenze: l’impotenza a ricostruire un «quadro generale degli eventi»; l’impotenza a parlare davvero dei morti, i sommersi di Primo Levi – scegliendo anzi di parlare proprio e soltanto di (pochi) salvati, appunto la «lista di Schindler»; l’impotenza a cogliere e rappresentare l’essenziale, come se un essenziale poi ci fosse; l’impotenza a fare vera chiarezza sul sistema concentrazionario e dello sterminio nel suo complesso; l’impotenza a raccontare la morte, tutta la morte, per quantità e per qualità; l’impotenza a dar conto di cosa sia stato veramente, per ciascuno, il sopravvivere alla Shoah. Sono emblematici, in tal senso, la celebre bambina col cappottino rosso, prima in fuga e poi cadavere, sotto lo sguardo attonito e impotente di Schindler, e il pianto finale del protagonista, anche per non aver potuto salvare più vite. Ma è soprattutto la sequenza dell’incursione di Schindler ad Auschwitz, per riprendersi le sue donne e i suoi bambini dirottati là per errore, che si fa metafora del film e delle necessità che forse lo muovono: scendere nell’Inferno, nell’anus Mundi di Auschwitz, per prendersi la responsabilità della scelta nel mentre stesso in cui si guarda impotenti a tutto il resto. E si tratta, com’è evidente, di una metafora che fa giustizia, una volta e per sempre, anche di qualunque discorso intorno a una completa e compiuta rappresenta zione della Shoah.
È esagerato dire tutto questo? Significa attribuire troppe «buone intenzioni» a Spielberg, che in fin dei conti è (o è stato) il re dei cinematografari hollywoodiani contemporanei? Forse… Ma se si assume fino in fondo il rischio dell’interpretazione, allora si può sostenere questo e altro, e anche navigare controcorrente rispetto a personaggi come David Mamet, che parlò di «pornografia emotiva», o come, nientedimeno, il Claude Lanzmann di Shoah e l’Art Spiegelman di Maus, entrambi critici aspri e implacabili, da subito, di Spielberg e della sua definitiva «americanizzazione dell’Olocausto».
Certo, analoghi discorsi e andirivieni interpretativi potrebbero e dovrebbero essere fatti su e per qualsiasi altro «film della Shoah». Ci limitiamo, per brevi accenni, a quel La vita è bella che, dopo Schindler’s List, più di ogni altro si è meritato nel mondo intero il titolo di film-evento sull’argomento. È un film che, sostanzialmente, non piacque affatto, alla prima visione, a chi scrive, ben oltre un significativo giudizio di Roman Polanski che ne parlò come di un film «brutto ma importante», o qualcosa del genere. In effetti, pur giudicando assolutamente buone e non bassamente commerciali le intenzioni di Benigni, appariva del tutto irrisolta la cifra stilistica del film, e beninteso non nel senso banale della commistione di comicità e tragedia, o in quello della forse neppure ricevibile domanda: «si può ridere della/sulla/nella Shoah?». Piuttosto, era il cortocircuito di favola e realismo (soprattutto, com’è ovvio, nella seconda parte, quella «nel campo») che lasciava fortemente perplessi, e ancor più l’insistita focalizzazione sulla vicenda del padre e del bambino, a scapito di tutto il resto, fino a rendere vere e proprie «comparse», per esempio, [taglierei] le altre vittime – con un effetto estetico-morale, si vorrebbe dire, a tratti assai discutibile e anche «sgradevole».
Ebbene, a distanza di qualche anno il film pare da rivalutare, al di là dell’immediata risonanza mediatica, non soltanto perché ha comunque alimentato l’interesse e l’attenzione del «vasto pubblico» sull’argomento (in modo forse ancora più intenso di Schindler’s List), ma soprattutto perché ha reso di fatto un po’ più ricco il dibattito contemporaneo intorno alla Shoah e alla memoria della stessa, disseminandovi, perché no?, i propri e peculiari spunti interpretativi – compresa, è certo, la sempre aperta interrogazione intorno al significato ebraico e universale della Shoah. E ancora una volta la «rappresentazione», in quanto tale, c’entra molto poco.
Per concludere, qualche osservazione su una «vacca sacra», o forse semplicemente un idolo, dei nostri tempi, e cioè la didattica, intesa troppo spesso come finale ed esigente destinazione di qualunque discorso serio intorno a «storia e memoria», e massimamente quando si tratta della Shoah.
È evidente quanto si è voluto suggerire con quel che si è detto sin qui.
È davvero ora che si utilizzi il «cinema della Shoah» non (o almeno non soltanto) come inerte documentazione, quanto invece come contributo importante all’interpretazione e all’intreccio sempre rinnovato tra conoscenze, interpretazioni, appunto, e vissuti, di ieri e di oggi.
Di nuovo: pretendere di utilizzare un film come documento «assoluto» e autosufficiente, col suo contenuto di rappresentazione, per insegnare qualcosa a studenti di qualunque età, è cosa assai frequente ai nostri giorni, ma non per questo, e soprattutto per la «memoria della Shoah», meno oscena e immorale. I film devono essere continuamente «rilavorati», per poter essere utilizzati nell’insegnamento della memoria; ci vuole un travaglio di cui, in tutta onestà, non sembra affatto capace la stragrande maggioranza degli insegnanti, troppo irretita in un acritico flusso mediatico e troppo pronta a utilizzare un «bel film» per uscir d’obbligo nel Giorno della Memoria o in altra ricorrenza.
La memoria richiede sempre continua rielaborazione e molto, moltissimo lavoro di prospettiva. E proprio come recita il titolo di un libro recente sul «cinema della Shoah», giocando sulla ricchezza e l’ambiguità delle parole, si tratta pur sempre di «proiettare l’Olocausto dentro il presente».
(Mino Chamla)




13 commenti:

  1. Interessantissimo!!!! molte cose non le sapevo e vi ringrazio davvero per aver fatto questo stupendo post. Shindler's list è stato il primo film che ho visto, avevo 12 anni e per me è stato davvero un colpo al cuore. Un film che mi è piaciuto molto è stato Train de vie, ma non riesco a rivederli, perché mi fanno stare troppo male.
    Un abbraccio a tutta la savana, se potete passate da me, c'è un premio per voi ;)

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    1. Secondo noi questi film sono un modo per mantenere viva la memoria: sappiamo che fanno stare male, ma è necessario, perchè quello che è stato è stato atroce.
      Un abbraccio e grazie per il premio!

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  2. amo "la vita è bella", è uno dei miei film preferiti! sentendo i telegiornali comunque mi sembra che si stia già dimenticando tutto... possibile che la storia non insegni proprio niente???
    un abbraccio

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    1. Si vuole tendere a dimenticare per giustificare i nuovi massacri che si commettono: Rwanda, Guantanamo, Kosovo, Russia, Burundi e tanti altri paesi.
      L'uomo non sarà mai uomo finchè continuerà a uccidere credendo di essere nel giusto: ecco perchè non si deve dimenticare.
      Un abbraccio zamposo

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  3. Pensate che qui in Svizzera viene proposta la visione nelle scuole di film che raccontano della Shoah e di altre tragedie (come quella dei Desaparecidos) per far riflettere i ragazzi.
    In Italia quando avverrà?

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    1. Chissà, forse quando certi professori smetteranno di negare che l'Olocausto c'è stato

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  4. Tanti film, tanti libri, tante voci: che non restino inascoltate.
    Complimenti per il post care Jene!

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  5. Ogni film, ogni documentario è sempre un colpo al cuore ma secondo me devono essere visti a oltranza per mantenere viva la memoria.
    Grazie per il post!

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  6. Tante voci, tante immagini per un unica immane tragedia. Nelle scuole la storia andrebbe anche studiata attraverso questi film e non solo su libri di storia troppe volte distanti dalla realtà dei fatti. Sta sera noi rivedremo "La vita è bella ".
    Brave Jene, un bellissimo post.
    Un abbraccio.
    Antonella

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  7. Finchè ci saranno persone che ricordano le "voci" dei morti si potranno udire per sempre.
    ciao

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  8. A very interesting post about Shoah, I like it very much.
    Good guys!

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  9. La memoria deve essere mantenuta viva. Bisogna ricordare sin dove la follia umana può arrivare e quali conseguenze può portare. E' incredibile sentire uomini che dicono "Ma durante lo sterminio o nei campi di concentramento Dio dov'era?" Dio? Dov'era l'uomo? Che fine aveva l'uomo ed il suo animo! Un disastro totale, l'apocalisse dei sentimenti e del senso stesso della vita!
    E come voi stesse avete scritto l'olocausto continuo ogni singolo giorno in altre parti del mondo e camuffato con altri termini o definizioni!
    Complimenti per il post, ma soprattutto per il senso del vostro blog!

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    1. Complimenti a te per il tuo commento, è un piacere averti come lettrice.
      Un saluto dalla savana

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